Da San Francisco a Oakland, la scalata dello chef Michele Belotti: a soli 29 anni apre un locale tutto suo negli USA
di Laura Ceresoli
SAN FRANCISCO (California) - Di
personaggi importanti, uomini d’affari, politici e attori, ne ha visti passare
parecchi da quando lavora a San Francisco. Eppure, quando la famiglia Cerea lo
scorso ferragosto ha varcato la soglia del suo locale, per il cuoco orobico Michele
Belotti è stata un’emozione senza eguali. “What can you cook for a 3 Michelin star chef
from Bergamo? (Che
cosa puoi cucinare per un tre stelle Michelin bergamasco?)” si
è chiesto immediatamente.
Già, perché un conto è insegnare ai bizzarri palati americani l’essenza della vera cucina italiana. Un altro è dimostrare a dei ristoratori che hanno fatto la storia nella sua città natale di essere all’altezza di questo compito. Ma alla fine, a giudicare dai commenti positivi sulla pagina Facebook di Michele, la serata coi Cerea si è rivelata un successo: “Gli ho fatto assaggiare di tutto un po’ – rivela – ed è andata alla grande. È stato un vero piacere averli ospiti da me”. D’altronde, in questi ultimi quattro anni trascorsi nella baia di San Francisco dietro ai fornelli del Ristobar, lo chef executive e general manager Michele Belotti, 29 anni, ha fatto il possibile per portare alto il nome dei bergamaschi nel mondo.
Questo talento emergente della cucina italiana è
riuscito nella non facile missione di inserire nei suoi menu delle vere chicche
per i californiani come lo Stracchino di Vedeseta, il taleggio e il gorgonzola:
“Abbiamo sempre importato polenta e taleggio in quantità industriali – racconta
Belotti – Raramente siamo riusciti ad avere pure qualche valigia piena di mais
spinato di Gandino. Al Ristobar producevo dai 2000 ai 3000 casoncelli a
settimana: è la pasta che si vende di più. Saltuariamente ho inserito nel menu
pure trepa (trippa), öf e spares (uova e asparagi), polenta e pica so, taragna
e strinù”. Originario di Vall’Alta, paesino di 3mila anime situato nella
splendida Valle del Lujo, Michele Belotti ha iniziato ad appassionarsi di cibo e
natura grazie ai suoi genitori: “Mio papà Maurizio era fruttivendolo – ricorda
– da piccolo mi portava spesso con sé per selezionare il meglio della frutta e
della verdura sul mercato. Mia mamma Angela, casalinga vecchio stile, allevava
annualmente una grande varietà di animali da cortile e, nonostante suo marito
fosse fruttivendolo, si riforniva di frutta e verdura rigorosamente dal
suo orto”. Da allora sono trascorsi molti anni. In mezzo, gli studi
all’Istituto alberghiero e una gavetta in molti locali della zona. Poi la
svolta americana. Per quattro anni è stato lo chef di punta del Ristobar di San
Francisco. La scorsa estate è volato alle isole Bermuda dove ha partecipato al
tv show “Brindiamo”, in onda su NYTV. È stato inoltre uno dei protagonisti
della manifestazione “Eat and drink SF” insieme ai top chef più celebri della
metropoli. Ma Michele è ancora giovane e non intende fermarsi. È infatti pronto
per una nuova, straordinaria esperienza culinaria che prenderà vita tra poco: “Finalmente – rivela
– io e mia moglie, dopo tanti sacrifici e avventure, siamo diventati
proprietari di un ristorante tutto nostro in Oakland, appena passato il bay
bridge di San Francisco. Apriremo probabilmente a metà gennaio 2016”. Già, perché un conto è insegnare ai bizzarri palati americani l’essenza della vera cucina italiana. Un altro è dimostrare a dei ristoratori che hanno fatto la storia nella sua città natale di essere all’altezza di questo compito. Ma alla fine, a giudicare dai commenti positivi sulla pagina Facebook di Michele, la serata coi Cerea si è rivelata un successo: “Gli ho fatto assaggiare di tutto un po’ – rivela – ed è andata alla grande. È stato un vero piacere averli ospiti da me”. D’altronde, in questi ultimi quattro anni trascorsi nella baia di San Francisco dietro ai fornelli del Ristobar, lo chef executive e general manager Michele Belotti, 29 anni, ha fatto il possibile per portare alto il nome dei bergamaschi nel mondo.
Com’è nata la sua assione per la
cucina?
Dopo la
terza media decisi di studiare cucina, ma non sapevo ancora il perché. Mi
iscrissi all'istituto alberghiero di Nembro che, ai tempi, era ancora sede
staccata di San Pellegrino. Iniziai a muovere i primi passi in cucina ad
Alassio, tramite uno stage con la scuola al terzo anno. Da quel momento in poi
ho continuato a cucinare dove mi veniva offerto. Spesso facevo extra nel fine
settimana da Paolo Basletta e Rosi, allora titolari del ristorante Beccofino ad
Albino.
Quando è arrivata la svolta nella sua
carriera?
Finita la
scuola, Basletta mi disse in dialetto bergamasco: "Ta ghe de ndà a ‘mparà
de ü brao". Così mi mise in
contatto con Paolo Frosio, chef dell'omonimo ristorante ad Almè, una stella Michelin. Con
mia grande fortuna, mi son ritrovato a lavorare in uno dei ristoranti che ha
fatto e sta facendo tuttora la storia nella grande ristorazione bergamasca. Grazie
a Paolo, a suo fratello Camillo, sommelier e grande appassionato di grandi
etichette italiane e francesi, e alla signora Bitta in cucina, ho fatto tre
anni di full immersion alla scoperta dei migliori prodotti da tutto il mondo ad
altissimo livello. Dal punto di vista di un cuoco, è come il paradiso.
Sottolineo, comunque, che non sono stati anni per niente facili, anzi.
Ma la sua esperienza all’estero come
è iniziata?
Ho lavorato
per un periodo in Piemonte, prima al ristorante Guido dallo chef Ugo Alciati,
di seguito al Relais San Maurizio con Luca Zecchin. Furono anni magnifici
ma poi un giorno mi arrivò una chiamata di Paolo Frosio che mi disse: "Un
mio amico dalla California (Gary Rulli, pasticcere AMPI e titolare di Emporio
Rulli) cerca un cuoco per il suo ristorante, vuoi andare?". A venticinque
anni, e onestamente con nient'altro che tanta segatura in testa, mi sono
trasferito a San Francisco in meno di due mesi. Ero partito con l'idea di farmi
un'esperienza veloce all'estero ma sono ancora qui.
Quindi si è trovato bene in America…
Se ti dai da
fare e lavori bene, vieni rispettato e hai tante soddisfazioni.
La sua soddisfazione più grande?
Far sentire
a casa un cliente italiano preparandogli un piatto di casoncelli.
Quali sono i lati negativi
dell’America?
Molti sono ancora
convinti che la cucina italiana sia fatta di Caesar salads, meat balls e
fettuccine Alfredo. La manodopera è un po’ scarsa: la gente in cucina qui viene
a lavorare solo per accumulare ore. Il 60% dei miei cuochi erano lavapiatti per
lo più analfabeti e senza la minima idea di come fosse una julienne o una
mirepoix. Di passione dietro ce n’è gran poca. Fortunatamente c’è Paolo
Marinoni, classe 1986 come me, originario di Leffe. È un grande amico e compagno di classe sin
dalle superiori. È stato il mio sous chef a Ristobar. Mi ha dato un grande
aiuto soprattutto quando ammazzavamo la nostalgia di casa facendo dialoghi
interi in puro bergamasco.
Gli americani apprezzano la nostra
cucina?
Sfortunatamente
credo che il 70% degli americani non abbia la ben che minima idea di cosa sia la
cucina italiana semplice che mangiamo tutti i giorni. La percentuale si abbassa
fino al 45-50% solo in pochissime grandi città, ma nel mezzo è notte fonda. Per
assurdo, in tv o al supermercato è un tripudio di italian dressing, italian
style, italian di qui, italian di là. Ma di italian questi prodotti non hanno
niente. Nei ristoranti che si spacciano per italiani usano una testa d'aglio
tritata per ogni cliente. I ravioli sono spessi fino a un centimetro e vengono
cotti e stracotti dall'alba al tramonto. Le polpette di carne, poi, sono proprio
quelle che la mamma ti dice di non mangiare mai al ristorante perché chissà
cosa c’è dentro: meatballs da tutte le parti! E non vi dico i giornalisti come
ne vanno matti…
Michele con la famiglia Cerea |
Non si salva proprio nessuno?
Fortunatamente
qualcuno che si salva c’è, tanti americani sono stati in Italia e
sorprendentemente molti hanno visitato anche la nostra Bergamo. Queste persone
apprezzano tantissimo i prodotti tradizionali e i piatti proposti nei miei
menù. Alcuni mi parlano della Marianna o della funicolare, altri sono stati nei
più grandi ristoranti e nelle più belle località italiane, quindi riconoscono i
formaggi, la vera polenta, la passione e la storia dietro ogni piatto. Questi
sono coloro che ti danno la voglia di andare avanti.
A quali chef si ispira?
In primis a
Paolo Frosio per la sua esperienza personale: con soli tre ingredienti
poverissimi può creare capolavori eccellenti. Poi c’è la famiglia Alciati in
Piemonte: Ugo, Piero, Andrea, sono grandi ristoratori da generazioni ormai.
Fanno parte dell'élite della ristorazione italiana. Ugo è stato uno degli chef
selezionati per Expo. Credo tuttavia che la maggiore ispirazione venga dalle
persone che sono sempre state attorno a me: i miei genitori che mi hanno
educato, mia moglie Joyce e gli amici che mi sono sempre stati vicino anche a
10mila chilometri di distanza.
Quando è stato importante internet
per promuovere la sua esperienza all’estero?
Qui è tutto.
La Bay area è il cuore dell'high tech nel mondo. Tutto gira intorno al web. Twitter,
Facebook, uber, on line banking, tutto è fattibile on line sempre 24/7. Ci sono app che collegate ai
migliori ristoranti ti portano il cibo a domicilio, addirittura un'altra app ti
manda un signore a casa a prenderti la biancheria da lavare che verrà riportata
poi piegata e stirata nel giro di un paio d'ore. I taxi sono ormai stati
sorpassati da Uber e Lift, due applicazioni che permettono a gente normale di
guidare taxi con la propria macchina. Chiunque va su internet, è una
grande arma per noi ristoratori, anche se spesso, a doppio taglio...
Un po’ come Tripadvisor…
Oh, sì. Oltre
a Tripadvisor, qui esistono altre applicazioni che offrono il medesimo
servizio. La più popolare è Yelp, ma anche Opentable o Zagat, tutte a parer mio
con lo stesso difetto: danno troppo potere a gente che spesso non è competente.
Un cliente può darci una stella, cioè il minimo, solo perché ha aspettato 10
minuti prima di sedersi o perché il cameriere non era simpatico. Il problema è
che una recensione, bella o brutta che sia, va direttamente a influire sulle
vendite e sulla sopravvivenza di un azienda fatta di tanti sacrifici. Se qui
hai un basso rating, non dico che sei morto, ma ci vai molto vicino. Il valore
di un ristorante dovrebbe essere stabilito da persone che hanno girato locali
di tutti i tipi, dalla trattoria alle tre stelle, come del resto è sempre stato
con Michelin, Frommer, Gambero rosso… L'evoluzione tecnologica ci sta portando
su questa strada, quindi anche noi ristoratori ci adatteremo lavorando sempre
meglio per far uscire i clienti dal ristorante pieni e contenti.
Anche Facebook è una buona
opportunità per promuoversi…
I media
aiutano molto. Essere on line apre le comunicazioni in maniera esponenziale.
Nel web c'è un database di tutti i ristoranti del mondo con tutti i menu. Se io
metto un piatto su Facebook ora, chiunque può vederlo, prendere ispirazione, aver
voglia di viaggiare. I clienti già prima di arrivare sanno già cosa vogliono,
sanno chi è lo chef, il proprietario, che tipo di cucina, che cosa mangiare.
Magari poi, dopo aver ordinato un casoncello, si fanno un selfie e lo postano
su Facebook.
Cosa le manca di Bergamo?
Tutto:
familiari, amici, la via Valbosana (la via dove vivevo), la polenta e coniglio,
le partite dell'Atalanta, la pioggia, le passeggiate sulle mura di Città Alta,
il suono delle campane, il fornaio alla mattina con il pane fresco, la
formagela e ol salam. Insomma, tante piccole cose che qui in America non ci
sono e che per fortuna ti fanno sempre venire la voglia di tornare a casa prima
o poi.
http://issuu.com/affaridigola/docs/adg/32 wow!!che sorpresa!!!!! Grazie Affari Di Gola Laura Ceresoli
Posted by Michele Belotti on Giovedì 17 dicembre 2015
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