L’evoluzione di frutti e legumi alternativi, dall’orto alla padella secondo lo Chef Mario Cornali



di Laura Ceresoli
Cotte, crude o alla griglia, anche le biodiversità potrebbero contribuire a rendere un piatto insolito. Ma solleticare i palati dei bergamaschi, così attaccati alle loro radici e ai gusti tradizionali, non è una missione sempre possibile. A spiegare l’evoluzione di frutti e legumi alternativi, dall’orto alla padella, è Mario Cornali. Chef del ristorante Collina di Almenno San Bartolomeo, ma anche scrittore, appassionato d’arte e docente dell’iSchool di Bergamo, questo cuoco orobico è un profondo conoscitore del territorio, della cultura e dei prodotti locali.
Cosa ne pensa dell’utilizzo delle biodiversità per creare piatti alternativi?
Non c’è un ortaggio o un frutto che non possa essere cucinato, secondo me. Le biodiversità dovrebbero essere inserite in un contesto di normalità. L’unico problema è la reperibilità e la conservazione di queste varietà. Bisogna fare educazione e formazione sui prodotti. Pensiamo, ad esempio, al mais di rostrato rosso di Rovetta. Slow food ha dimostrato  come la farina di questo mais, rigorosamente macinata in un mulino a pietra con certificazione biologica, si presti alla preparazione dei più svariati piatti. È una farina meno collosa ma che ha più sapore perché ha determinate caratteristiche. Eppure molta gente ancora non la conosce.
Gli chef dovrebbero cambiare il loro approccio verso la cucina?
Sì, altrimenti si rischia di cadere in operazioni commerciali dove si cucina un piatto alternativo solo per scopi promozionali. Pensiamo alla moda del Kamut. Ce lo hanno propinato come una varietà alternativa. Ci hanno fatto credere che hanno scoperchiato un sarcofago e hanno trovato una mummia con in mano un seme di kamut, ma alla fine è solo un marchio.

Lei ama dialogare con i suoi clienti?
Quando si parla di terra mi piace usare il termine “alleanza”. Io ho bisogno dell’alleanza di chi frequenta il mio ristorante affinché capisca le caratteristiche del prodotto. Non è un fatto solo tecnico ma anche etico, culturale e  rurale. Nel mio piccolo ho sempre cercato di coinvolgere il cliente. Qualcuno, anni fa, mi ha persino chiesto: “Ah, ma nel lago ci sono ancora i pesci?”. Oppure: “Esiste un mais in natura che non è quello che trovo al supermercato nel pacchetto già macinato?”. Questo la dice lunga sul grado di consapevolezza dell’utenza.
Ci vorrebbe più attenzione non solo verso gli animali in via d’estinzione, quindi, ma anche per i semi e i vegetali…
Quando c’è la possibilità di conoscere, non dobbiamo farcela scappare e soprattutto dobbiamo condividere le nostre conoscenze attraverso una rete integrata multidisciplinare. 
Cosa si potrebbe fare per sensibilizzare di più i clienti sul tema delle biodiversità?
C’è bisogno della partecipazione di più soggetti: cuochi, scuole, ristoratori, produttori ma anche e, soprattutto, del cliente. Dobbiamo diventare tutti protagonisti del cerchio. Se uno produce ma non c’è chi cucina, manca un tassello. Idem se uno produce, c’è chi cucina ma non c’è chi mangia. Oppure se c’è chi mangia ma manca chi produce. Tutti devono contribuire. Il frequentatore abituale di locali è determinante, dovrebbe imparare a essere più curioso e farsi una domanda in più su quello che trova a tavola.
Ma quando i cliente assaggiano un ortaggio diverso da quello che sono soliti trovare sui bancali del supermercato sono aperti alla novità oppure storcono il naso?
Molti purtroppo hanno gusti standard. Spesso chi viene al ristorante ha già un’idea ben precisa di quello che vuole mangiare e se il giusto che trova nel piatto non è quello che si aspetta, spesso storce il naso. Il pomodoro non è sempre lo stesso pomodoro. Dobbiamo accettare questo per far sì che si ritorni a utilizzare la biodiversità in cucina. 
(tratto da www.affaridigola.it)


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