Addio a Umberto Veronesi. Un giorno mi parlò di eutanasia...

di Laura Ceresoli
(tratto dal settimanale Visto di agosto 2014)
La mia esperienza diretta e quotidiana mi ha fatto capire che si può arrivare a un momento in cui il solo desiderio è anticipare la fine del dolore. Per questo l’eutanasia va intesa secondo me come forma estrema di trattamento palliativo, cioè teso a  lenire e dare sollievo a chi soffre senza speranza”. Queste parole amare, ma intense, arrivano da Umberto Veronesi, un uomo che ha fatto della lotta al dolore e alla violenza una missione di vita. Fondatore dell’Istituto europeo di oncologia di Milano, ha visto in prima persona, attraverso gli occhi vuoti e tristi dei suoi pazienti, la fatica di percorrere quel lungo, straziante cammino, che conduce fino all’aldilà.
E se in passato c'era forse la paura di morire troppo presto, oggi per l’oncologo il vero problema degli esseri umani è sopravvivere oltre il limite naturale della vita, magari in una condizione artificiale, priva di coscienza o di qualsiasi relazione. “In un Paese civile, ognuno dovrebbe avere il diritto di scegliere come morire per non perdere la propria dignità”, dice Veronesi che ancora si incupisce nel ripensare agli epiloghi orribili e ai gesti estremi che, negli ultimi anni, hanno coinvolto persone a lui care. Difficile dimenticare fini tragiche come quella del regista Mario Monicelli che si alza dal letto di un ospedale, apre la finestra e si butta giù o come quella di Carlo Lizzani che, in maniera più o meno analoga, si toglie la vita gettandosi dal balcone del suo appartamento di Roma al terzo piano. A luglio l’ex ministro della Sanità ha partecipato al dibattito pubblico sull'eutanasia organizzato a Palazzo Marino dall'associazione Luca Coscioni e dal comitato promotore EutanaSiaLegale. Durante l'incontro è stata ribadita la richiesta al Parlamento di calendarizzare la proposta di legge di iniziativa popolare per l'eutanasia legale e il testamento biologico, firmata da 70 mila cittadini e depositata alla Camera il 13 settembre 2013. È trascorso un anno da allora ma ancora nessun dibattito è stato aperto sull’argomento.
Dottor Veronesi, secondo lei in Italia l’argomento eutanasia è ancora tabù?
Penso che, più che un tabù, eutanasia sia un termine mal compreso e mal interpretato. La parola, che significa “dolce morte”, fu utilizzata per la prima volata da Francis Bacon nel 1605, in uno scritto in cui esortava i medici di allora a prendersi cura del malato anche nella fase terminale della sua malattia. Poi purtroppo in epoca nazista il termine ha assunto tutt’altro significato: in sostanza liberarsi di malati scomodi. Ora dovremmo recuperare il senso originale del termine e iniziare a parlare  di libera scelta. Ciò che sta a monte del principio dell’eutanasia è la scelta di mettere fine alla propria vita in modo dignitoso, soprattutto quando la vita diventa una sequenza di ore di dolore fisico, sofferenza ed emarginazione, a causa di una malattia che non ha alcuna speranza di regredire.
Di recente anche il presidente della Repubblica Napolitano ha dichiarato che “il Parlamento non dovrebbe ignorare il problema delle scelte di fine vita ed eludere un sereno e approfondito confronto di idee sulle condizioni estreme di migliaia di malati terminali in Italia''… 
La posizione assunta da Giorgio Napolitano gli fa molto onore. È il primo Presidente della Repubblica che ha il coraggio di occuparsi dei temi etici fondamentali e di esortare il Parlamento a dibatterne. L’Italia  ha il costume di considerare le questioni di bioetica solo quando si presenta un’emergenza che destabilizza il Paese. Pensiamo al caso di Eluana Englaro, per cui era pronto un decreto ad hoc.
Cosa risponde ai cattolici che sostengono che la vita è un dono e quindi non va mai interrotta né prima di nascere né in età avanzata?
Capisco perfettamente che un cattolico non possa infrangere il dogma della sacralità della vita, che è dono e proprietà di Dio. Tuttavia questa regola dovrebbe valere solo per i credenti nel Dio cristiano e non è giusto imporla anche a chi non crede o crede in un altro Dio. Noi chiediamo, come ho anticipato, la facoltà di libera scelta, che ognuno applicherà alla propria vita secondo la propria fede o assenza di fede.
Un terzo dei suicidi è a carico di chi ha più di 65 anni e metà degli anziani ormai non ha più voglia di vivere. Come commenta questo dato?
Purtroppo in Italia la vecchiaia non è un valore e i suicidi fra anziani sono la conseguenza di questo atteggiamento culturale. Quando una persona va in pensione perde la sua identità e non vi è alcuno sforzo per fare tesoro della sua esperienza e sapienza. Io invece sostengo che l’anziano ha il diritto di avere dei doveri: se ha una responsabilità, avrà anche un ruolo e non si sentirà un peso per la società e la famiglia. Con l’aumento della vita media, la valorizzazione della terza età diventa un problema cruciale.
Non si possono ignorare casi come quello di Mario Monicelli che, a 95 anni, si è buttato dalla finestra di un ospedale. Pensa che se in Italia fosse stata legale l'eutanasia, il regista sarebbe morto in modo più dignitoso?
Certamente. Morire nel proprio letto a seguito di un’iniezione che permette di lasciare questa vita nel sonno, è un atto più civile che trascinarsi verso una finestra e sfracellarsi al suolo.
Il giornalista Indro Montanelli diceva sempre: “Una morte dignitosa è un diritto di libertà”…
Sono d’accordo. Penso che in una società evoluta debba esistere il diritto di morire e che questo faccia parte del corpus fondamentale dei diritti individuali: il diritto a formarsi o non formarsi una famiglia, il diritto a un giustizia equa, all’istruzione, alla scelta del lavoro e del domicilio e così via. Se intendiamo l’eutanasia come libera scelta non può che essere così.
In tanti hanno un parente anziano che non ce la fa più e minaccia di farla finita. Lei ha qualche aneddoto da raccontarci, magari legato a un suo paziente o a un conoscente, che l’ha fatta soffrire in modo particolare?
No, non mi è mai capitato che un paziente mi chiedesse esplicitamente di morire.
E tra i casi più celebri, da Carlo Lizzani a Lucio Magri, quale le è rimasto più impresso?
Direi senza dubbio quello di Lucio Magri, che mi ha colpito per la sua lucidità. Magri era un intellettuale vero, votato alla razionalità e la profondità di pensiero, e quando, per ragioni esistenziali, ha raggiunto la consapevolezza di essere stanco di vivere, ha preso la decisione lucida di porre fine alla vita. È stata  dunque una scelta meditata, che fa eco alla cultura degli stoici.
Quali sono le strade che conducono alla dolce morte?
C’è il “lasciar morire” , interrompendo le terapie, l’ “aiutare a morire”, sedando il dolore con dosi sempre più elevate di farmaci, e “far morire”, somministrando un farmaco letale. Le tre modalità sono equivalenti dal punto di vista etico, ma non lo sono dal punto di vista giuridico. Il far morire è considerato omicidio, anche se consapevolmente ed esplicitamente richiesto dal paziente.
Se un giorno lei dovesse capire di non avere più voglia di vivere, come vorrebbe morire?

Sicuramente in modo non violento. Ho combattuto la violenza per tutta la vita e non vorrei mai celebrarla con la mia morte. 

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