Alessandro Gianati, il racconto di uno chef italiano oltremanica in cerca di fortuna

di Laura Ceresoli

Alessandro Gianati, 28 anni
“Qui in Inghilterra vige la meritocrazia: non importa che tu sia il primo o l’ultimo arrivato, se sei bravo e fai sacrifici, verrai sicuramente ripagato”. A dirlo è Alessandro Gianati, 28enne bergamasco che da 9 mesi ha lasciato Gromlongo, la piccola frazione di Palazzago in cui è cresciuto, per cercare fortuna a Londra. Nonostante la giovane età, ha alle spalle un curriculum di tutto rispetto dietro i fornelli di rinomate cucine orobiche e non solo, dapprima come commis de partie, poi come capo partita per primi e dessert. Finiti gli studi all’Ipssar di San Pellegrino Terme, ha cucinato per tre anni al ristorante Frosio, ha soddisfatto i palati di clienti esigenti offrendosi come cuoco per una residenza privata in Sardegna, ha lavorato al Trussardi alla Scala a Milano e per una piccola osteria in Brianza. Ora Alessandro ha trovato casa a Swindon nello Wiltshire, dove la vita è meno costosa e caotica rispetto al centro di Londra. Nel frattempo le occasioni professionali per Gianati non mancano: “Appena ho messo piede nel Regno Unito – racconta – ho lavorato in un ristorante italiano per 4 mesi, ho iniziato come capo partita ai primi e, nel giro di due mesi, mi è stato chiesto di diventare chef, offerta che ho rifiutato per riprendere gli studi della lingua e per iniziare a pianificare un progetto futuro in Italia. Ora sto valutando una nuova opportunità a Swindon”.

Quali sono gli aspetti positivi di lavorare all’estero nel settore della ristorazione?

In Inghilterra è molto semplice, nel nostro settore, con un minimo di esperienza, o meglio ancora se con un buon curriculum, trovare un posto di lavoro. Qui le cose cambiano molto velocemente, il personale va e viene e quindi si creano molte opportunità.

E i salari come sono?

Sono mediamente più alti che in Italia, anche perché qui la vita è un po’ più cara.

È stato difficile adattarsi a una nuova cultura?

L’organizzazione, i ritmi e i clienti sono diversi. L’Inghilterra nel nostro settore pecca abbondantemente di cultura ma è comunque un’esperienza che ti apre la mente. Un qualsiasi cuoco italiano che cresce con la cultura del cibo deve superare lo shock iniziale nel vedere ciò che qui spacciano per cibo e come lo preparano. Da non dormirci la notte! Per un professionista non è assolutamente facile convivere con questo modo di concepire il cibo  ed è uno dei motivi per cui non ho accettato di diventare chef nel ristorante dove lavoravo.

Insomma, la cucina italiana viene un po’ maltrattata dagli inglesi, secondo lei?

Credo che il 95% delle persone nel mondo non abbia idea di cosa sia la cucina italiana. Qui ho sentito definire bolognese la passata di pomodoro o chiamare “pepperoni” il salame piccante sulla pizza. Ho visto fare carbonare senza uovo, ma solo con panna da cucina, bacon e champignon. Ma la cosa incredibile è che se proponi a qualcuno la vera carbonara ti rispondono che a loro piace la panna e la preferiscono così, senza aver mai provato la ricetta originale. Quello che mi fa più rabbia è che le persone che hanno più appeal e che possono insegnare qualcosa sono sempre quelle sbagliate.

Lo chef inglese Jamie Oliver con le sue lasagne
Si riferisce a qualcuno in particolare?

In Inghilterra la cucina italiana è rappresentata dallo chef inglese Jamie Oliver e non da veri professionisti italiani che possano insegnare ad altri Paesi la nostra cultura culinaria.

Lei a quali chef si ispira?

Mi  ispiro e ammiro tutti quegli chef che portano avanti con convinzione amore e follia le proprie idee.

Anche i ristoranti italiani veraci hanno dovuto adattarsi ai gusti degli inglesi per avere successo?

Tutti quei ristoranti ex italiani nel mondo degli anni 70/80 si sono adattati al Paese dove si trovavano e hanno così contribuito alla creazione degli stereotipi della cucina italiana all’estero. Un piccolo aneddoto: prima di rientrare per le vacanze in Italia ho chiesto a due nonnini inglesi molto carini e cordiali, miei vicini di casa, se gli fosse piaciuto ricevere qualche prodotto italiano e la loro risposta fu: “No grazie, a noi non piace l’aglio”. Come se noi italiani vivessimo con teste di aglio appese per casa per difenderci dai vampiri...

Le piacerebbe far conoscere la cucina bergamasca agli inglesi?

Per il momento non ne ho avuto la possibilità ma mi piacerebbe molto portare qui qualcosa delle mie origini. Bisogna trovare il giusto compromesso e, talvolta, non è facile.

Cosa le manca di Bergamo?

Non è da molto che sono via ed è anche abbastanza semplice tornare, anche solo per un saluto. I nuovi media sono un aiuto importante per tutte le persone che si trovano lontane, aiuta a sentire meno la mancanza di amici e famiglie. Sicuramente mi manca poter pranzare come si deve. A Bergamo si casca sempre in piedi, ovunque si vada a mangiare.
(tratto da www.affaridigola.it)

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